Assieme a quella dei suoi amici che portavano a spalla la bara bianca, è stata una in assoluto l’immagine che in questi giorni più di tutte mi ha tormentato e al tempo stesso fatto riflettere sulla tragedia che sull’ex Strada Statale 270 ha visto la terribile morte di Manuel Calise, il giovanissimo studente del Liceo falcidiato da un’auto alla cui guida c’era un altro giovane. Si tratta di una foto che giovedì mattina 2 dicembre mi ha inviato una mamma isolana che l’ha scattata nel mentre percorreva il lungomare di Lacco Ameno e che in uno scatto ritrae la reazione avuta dai coetanei di Manuel che per ore hanno stazionato sul luogo della tragedia dove, in silenzio e sotto la pioggia, piangevano il loro amico d’infanzia, il loro compagno di scuola, di giochi e di calcio. Ragazzi uniti dalla solitudine in cui il nostro tempo li ha rilegati e che cercavano, smarriti, di farsi coraggio gli uni con gli altri. Una foto che è straziante nell’osservarla. Infatti sul parabrezza, in primo piano, balzano agli occhi le gocce di pioggia che sembrano quasi voler rappresentare le lacrime di cui sono ricoperti i volti dei ragazzi ammassati di spalle sul marciapiede dove attoniti ed increduli osservavano la scogliera dove è stato catapultato il caro Manuel. Osservo la foto e rifletto nel vedere quei ragazzi lasciati soli al loro destino ed al loro dolore senza che, al di là di convegni e parole di circostanza, i rappresentanti istituzionali a tutti i livelli del nostro Paese facciano realmente qualcosa per fermare la strage di innocenti in atto da anni sulle nostre strade. Rappresentanti istituzionali che non solo non avvertono neppure la sensibilità di mettere in sicurezza le strade isolane paurosamente dissestate, ma che non hanno fatto mai nulla per rendere più sicuro quel lungomare considerato, dalle statistiche sugli incidenti, una delle dieci strade più pericolose d’Italia. Ragazzi a cui, anche per questo e non solo per questo, a partire da Manuel e da tutti gli altri giovani e meno giovani vittime della strada che non siamo riusciti a difendere e a strappare al loro tragico destino, abbiamo il dovere di chiedere umilmente scusa e fermare questa mattanza senza fine. Non è ne giusto ne normale che noi genitori dobbiamo essere terrorizzati dal fatto che ogni qualvolta i nostri figli escono di casa per andare a scuola o a fare una passeggiata con gli amici, debbano fare i conti con le mille insidie che questa società schifosa riserva loro. Fare i conti con il pericolo della droga, dell’alcolismo, del gioco d’azzardo o con una macchina che corre a folle velocità in un contesto sociale perverso dove tutto si mercifica, persino i rapporti umani ed i pericoli. Il pianto degli amici di Manuel stretti attorno alla sua bara bianca, rappresenta l’ennesimo monito che giunge a noi adulti che non possiamo ancora una volta ignorare il loro dolore. E questo per evitare altri dolori. Da tempo, rispetto all’esperienza maturata a seguito del mio impegno politico, sociale e giornalistico che seguendo lo straordinario esempio di mio padre porto avanti praticamente sin da quando ero ancora un bambino, sostengo che come generazione di cinquantenni a cui appartengo, dovremmo solo fare il mea culpa per avere, col nostro comportamento sociale ed elettorale, tolto il futuro ai nostri figli e per avergli tolto persino la possibilità di sperare in un futuro migliore. E per dimostrare il totale fallimento della mia generazione, porto ad esempio quello che per noi hanno fatto le generazioni che ci hanno preceduto. I nostri nonni dopo aver liberato l’Italia dal flagello del nazi-fascismo, hanno ricostruito a mani nude l’Italia ridotta in macerie dalla seconda guerra mondiale, mentre i nostri genitori col fervore politico degli anni sessanta e settanta, gli scioperi generali e le imponenti proteste di piazza costate la vita a tanti manifestanti, col sangue della lotta hanno conquistato al popolo italiano diritti civili e sindacali impensabili per quei tempi spianando, così, la strada a garantire una vita migliore ai propri figli. E noi, attuali cinquantenni, figli di queste due eroiche generazioni che hanno consentito un certo progresso civile e sociale alle future generazioni – seppur all’interno dell’infame sistema economico e sociale capitalistico dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo e delle disuguaglianze economiche e sociali che mi onoro di avere sempre contrastato nella speranza di costruire una società superiore che faccia dei valori della solidarietà, dell’uguaglianza e dell’altruismo i suoi capisaldi -, cosa abbiamo fatto per garantire un futuro migliore ai nostri figli? Nulla! Talmente nulla che siamo stati capaci persino di farci strappare tutti i diritti sociali e sindacali conquistati nei decenni scorsi dai nostri genitori e oggi ci apprestiamo a lasciare in eredità ai nostri figli un tessuto sociale letteralmente malato, una società infame dove imperversano miseria e povertà, sfruttamento e disumanità. Lasceremo i nostri figli non in una società civile come avrebbero meritato, ma li lasceremo in una giungla di ignoranza ed inciviltà dove, ad esempio, sono costretti a lavorare dieci, undici, dodici, tredici e persino quattordici ore al giorno in cambio di uno stipendio di fame. E solo per questo non avranno neppure il tempo di poter seguire i propri figli a dovere, come già capita troppo spesso anche a noi che li lasciamo diseducare dall’uso continuo di videogiochi e social network di cui sono prigionieri e vittime al tempo stesso. Videogiochi e social che quasi ci fanno confondere la vita virtuale con quella reale a cui, ognuno di noi, sembra dare sempre più poco valore. Un valore talmente effimero che siamo disposti a gettarla alle ortiche per provare semmai l’ebrezza di correre a folle velocità in auto o sui due ruote senza sapere che di vite non ne abbiamo delle altre come accade nei videogames. Ed io, almeno io, di questo me ne vergogno dinanzi ai miei figli e alle future generazioni nonostante potrei dire che mi sono sempre impegnato per rendere migliore questo mondo, lavorando e lottando giorno e notte da sempre, rinunciando, per questo, anche al divertimento negli anni della gioventù. Me ne vergogno perché evidentemente non sono riuscito a farmi capire dai miei coetanei di ieri, dai cinquantenni di oggi. E di questo me ne vergogno talmente tanto da chiedere pubblicamente scusa ai nostri figli, promettendo loro, al tempo stesso, però, di continuare, seppur tra mille difficoltà, a battermi affinché possano avere un futuro migliore, in una società superiore che noi comunisti identifichiamo in quella Socialista con la speranza che siano tanti gli altri che vogliano fare altrettanto.
Gennaro Savio